Sono molti mesi che seguo il dibattito sull’#inclusività, sul linguaggio in relazione all’identità di genere e dintorni in aggiunta al mio personale interesse di sempre verso la parità di genere, che include una personale ostilità verso le quote rosa, una posizione moderata verso le tematiche linguistiche (sono a favore ad utilizzare i femminili e i maschili delle professioni, laddove esistano nella lingua italiana, non sono a favore della schwa o degli asterischi) e la convinzione che sia assolutamente controproducente la tendenza a fare cose “per donne” (donne imprenditrici, mamme imprenditrici, donne freelance, etc) tutte fiocchi rosa e roselline, come se non fossimo in grado di parlare di business (tutto il business) o di fare business (tutto il business). A tutto questo si sono aggiunti i diritti (sacrosanti) della comunità LGBT e dintorni.
Quindi, una gran corsa all’inclusività: non c’è più una trasmissione, una serie, un film in cui non siano rappresentati in egual proporzione etero e omosessuali, nelle varie combinazioni di etnìe disponibili.
Arriva l’annuncio delle “figure femminili” (non “donne”, mi raccomando) che “affiancheranno” #Amadeus nella conduzione di Sanremo.
Grande scalpore e tripudio per la presenza della bravissima Drusilla Foer (alias Gianluca Gori) a fianco a una equilibrata ed inclusiva rosa di donne, tra cui l’anziana attrice ben tenuta gioiosa compagna di tanti gioiosi momenti in solitaria dei maschietti italiani over 50, la #perennial siliconata nazional popolare (qui in quota maschietti over 40), la giovane attrice impegnata e l’altra giovane attrice italiana ma “color ebano” come l’ho vista delicatamente definire in alcuni articoli di giornale.
Le “figure femminili” non sono “vallette” ma “co-conduttrici” (come se bastasse cambiare il nome per cambiare i fatti) e affiancheranno Amadeus nelle cinque serate del festival.
Sono stupita di come si sia urlato alla grande rivoluzione inclusiva, quando appare evidente come non mai che si tratti di un’operazione assolutamente di facciata, che non ha a cuore alcuna forma di eguaglianza sociale ma che – anzi – selezionando i personaggi in “quota di inclusività”, non fa altro che rendere ancora più grottesco ed evidente il senso di diseguaglianza e subalternità che nella cultura italiana hanno tutte le categorie rispetto al maschio bianco etero, che nella situazione specifica non è neppure tanto talentuoso o affascinante (ma questo è un gusto personale, lo ammetto).
Riepiloghiamo:
– su 66 edizioni del festival di Sanremo ci sono state secondo Wikipedia solo 4 conduzioni femminili, di cui solo Antonella Clerici da sola
– in tutte le altre edizioni le donne hanno avuto ruoli subalterni per non dire di pura decorazione, con una frequente forma di paternalismo e derisione per le scarse capacità di eloquio ed espressive delle giovani e fulgide “figure femminili”
– nel 2022, ancora, ci vogliono 5 co-conduttrici (figure femminili) per affiancare un solo uomo che “conduce e decide” (ricorda qualcosa?) ma siamo tutti felici per la modernità (e magnanimità aggiungerei) dimostrata da Amadeus nello scegliere attrici (comunque bellissime) e non soubrette o modelle e di inserire anche una figura transgender (bellissima pure lei).
Figura #transgender che sarà sicuramente soddisfatta di essere finalmente trattata come una #Donna: messa in un harem al servizio di un uomo bianco ed etero, con un ruolo di subalternità, ad attendere che siano il tempo e il luogo, magnanimamente decisi dal pater familiae, per ricevere diritto di parola.
Queste sì che sono conquiste. All’amatriciana.
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